Falstaff

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Luogo: Bologna, Torino
Anno: 2007
Musica: Giuseppe Verdi
Commedia lirica in tre atti di Arrigo Boito
Direttore: Daniele Gatti
Regia, scene e costumi: Pier Luigi Pizzi

Contribuiscono in maniera determinante all’estrema bellezza e raffinatezza dell’allestimento le luci di Vincenzo Raponi, crepuscolari e calde, lunari e stregate, sempre con mille riflessi di raggi cangianti, inarrivabili negli interni che sembrano quadri di Vermeer.

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L’allestimento è un mirabile esempio di eleganza formale e di armonia scenica. Pizzi è un mago nelle scene e nei costumi e qui non si smentisce: l’ambientazione è tardo vittoriana, raffinatissima negli effetti di luce e colore che ricordano i quadri di Vermeer. Splendido il finale, gli addetti che raccolgono da terra vestiti ed attrezzi smessi a vista dai cantanti, i tecnici spingono a mano indietro le scene, nel sollevarsi delle quinte a rivelare il palcoscenico nudo, i coristi che saltellano e si abbracciano festosi, per poi chiamare in scena i cantanti, anche loro gioiosi e giocondi, in una passerella finale divertente e divertita, come la fine di una fortunata turnè. Contribuiscono in maniera determinante all’estrema bellezza e raffinatezza dell’allestimento le luci di Vincenzo Raponi, crepuscolari e calde, lunari e stregate, sempre con mille riflessi di raggi cangianti, inarrivabili negli interni che sembrano quadri di Vermeer.

Francesco Rapaccioni – Teatro.it

All’impressione di vitalità concorre il bello spettacolo di Pier Luigi Pizzi, come sempre di un’eleganza rara. I mattoni rossi dell’Inghilterra edoardiana in cui è trasportata l’azione sono lo sfondo su cui spiccano i costumi, bianchi e neri, per lo più, ma con le donne in colori squillanti: blu cobalto, verde smeraldo e cappellini da antologia, che bastano, quasi da soli, a creare i personaggi. Il tutto combinato in un gioco aereo, lieve, che nell’ultimo atto, prima con quel sinistro sole rosso su cielo nero, poi con la luna nella notte scura, e la quercia gigantesca dalle tinte autunnali, possiede una vera magia.

Paolo Gallarati – La Stampa

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